Ho scritto ‘a
sgarra e inserta’
la parola ‘sdirrubbatu’
su Google. Mi ‘firriava’
in testa questa parola, perchè io, che sono del ’57, sino al ’65
abitai in vicolo
sant’Orsola,
una ‘vanidduzza’
della via
Maqueda,
accanto alla chiesa San
Nicola
e via del Giardinaccio,
detta ‘ u’jaidinazzu’.
E lì dentro, tra quei vicoletti disagiati, sporchi e diroccati,
giocavamo tra ragazzini in un punto sventrato dalle bombe della
guerra, ancora calde…Quel punto era detto tra noi noi, appunto,
u’sdirrubbatu.
E
quanti ricordi mi affiorano nella mente, della mia Palermo,
di quegli anni. Il venditore di arancine al cioccolato, che, passando
la mattina, suonava la trombetta e diceva: mi
‘nni vaju!
Lo chiamavi dal balcone, calavi u panaru, e con 50 lire ti dava un’arancina ben arrotolata nello zucchero. Ma alle sei di ogni mattina si sentiva la voce cantilenante del venditore di ‘ciavusi’, ovvero i gelsi, bianchi o rossi. Che diceva una filastrocca che capii dopo molto tempo: ‘…a st’ura t’arrifriscanuuu’.
Quella era la via Maqueda, la centralissima via Maqueda. Chi lo direbbe, col traffico di oggi, che in certi momenti della giornata ‘cunzavamu’ le porte e giocavamo a calcio? Le vetture erano rarissime….
Lo chiamavi dal balcone, calavi u panaru, e con 50 lire ti dava un’arancina ben arrotolata nello zucchero. Ma alle sei di ogni mattina si sentiva la voce cantilenante del venditore di ‘ciavusi’, ovvero i gelsi, bianchi o rossi. Che diceva una filastrocca che capii dopo molto tempo: ‘…a st’ura t’arrifriscanuuu’.
Quella era la via Maqueda, la centralissima via Maqueda. Chi lo direbbe, col traffico di oggi, che in certi momenti della giornata ‘cunzavamu’ le porte e giocavamo a calcio? Le vetture erano rarissime….
E proseguivano i nostri giochi a Ballarò, più pulita di oggi.
Allora, in prima elementare, alla Gaetano Daita, fui rimproverato dalla maestra, in prima elementare, di non saper parlare in italiano. Infatti, tutti ci esprimevamo solamente in strettissimo dialetto palermitano. Oggi è cambiato qualcosa: sono persino laureato.
Poi,
pensandoci, mi viene in mente, sempre in quel vicoletto dove abitavo
(anni fa lo rividi tutto diroccato e disabitato), tra la gente che lo
abitava, il continuo entrare ed uscire dal negozietto chiamato la
Taverna,
gestito da ‘u’zu’
Totò’,
da cui mio padre mi mandava a comprare il vino. Accompagnato anche da
una ‘acqu’e’sessa’,
che non era altro che una bottiglia di seltz, molto economica,
stranamente, che aveva un meccanismo di espulsione del contenuto,
acqua frizzante, premendo una leva in alto. Occorreva portargliene
una vuota per averne una piena. E mentre mi riempiva il mio litro di
vino, vedevo entrare gli avventori che ordinavano ‘un
quai’tu e ‘na ‘zzusa’,
ovvero un bicchierone di vino mescolato con una gazosa, forse
l’antenato dei moderni mix tra alcool e bevanda frizzante dolce. Ai
tavoli altri avventori bevevano vino alternandolo ad uova sode
abbondantemente disposte in un piatto, già sbucciate. Ed ogni tanto
qualcuno urlava: ‘carricu!’:
evidentemente giocavano a briscola.
Aggirandosi nel vicolo era tutta una serie di gambe distese per lungo
su cui erano appoggiate delle sedie. Erano ‘ i’mpagghiaturi’,
gli impagliatori di sedie, che seduti distesi per terra, impagliavano
le sedie. Artigiani ormai scomparsi da tempo, che fabbricavano le
sedie impagliate Accanto a loro un fuocherello acceso dove, poggiato
su di esso, cuoceva una rozza pentolaccia, con un puzzo acre che
infestava tutto il vicolo. Era la colla da falegname, per incollare
le sedie, che veniva ottenuta versandovi la colla solida in palline.
Ogni impagliatore aveva accanto la sua colla che cuoceva e immaginate
il tremendo odore che infestava tutte le stradine. Era l’economia
artigianale del posto, non ricchissima ma bastevole per vivere
dignitosamente Anche mio padre era un artigiano, ma delle calzature.
Passava di lì, ogni mattina verso le dieci, ‘u’sfinciaru’,
il venditore di sfincionello,
che si sapeva doveva ‘ a’bbanniari’.
Aveva una cantilena, ripresa poi da altri, che diceva, pressappoco,
‘sfincionelloo..
cavuru cavuru’.
E mio padre, in sottofondo, a volte continuava la frase con una
cattiveria, che pare si dicesse ai suoi tempi :‘sca’isu
ru’agghi’u e chinu ri pruvulazzu’,
cioè, per i non palermitani, carente d’olio e pieno di polvere. Ma
gli
abbanniaturi,
cioè i banditori di frutta e verdura, erano una costante, lì, ne
passavano tanti. E tra le urla che si sentivano, si mischiava il rito
della domenica mattina. Improvvisamente la signora del secondo piano
si affacciava e urlava improperi e parolacce alla signora di fronte,
che, data l’enorme ristrettezza del vicolo, poteva quasi toccare
con mano. E tra noi dicevamo, opportunamente istruiti da mio padre:
sono le’stra’cchiulare’
o, peggio, i’stra’fa’lari.
Mi fermo quì . Aggiungo che vengo spesso a Palermo, per il mio
lavoro. C’ero sino a Giovedì scorso. Ed ogni volta la mia città è
un balsamo che fa rinascere.